“B R O L O E L A S U A S T O R I A”
Un’erta strada, chiusa da quinte architettoniche di case, addentrandosi sempre più antiche, si arrampica verso il vertice di un roccioso rilievo emergente dall’intenso verde di agrumeti in una breve pianura alle pendici dei Nebrodi. Poi una porta ad arco, segnata da blocchi di fragilissima pietra arenaria riquadrata e decorata da antiche insegne araldiche e fregi, immette in un pianoro dove il mito medievale del paese diventa certezza storica.
Cinto di bastioni merlati, il pianoro diventa “un arrovellarsi di minuscoli abituri la cui secolare edificazione spesso riesce a celare antiche strutture fortificate o diventate con esse un tutt’uno”.
Qui il Medioevo continua nella vita di tutti i giorni, nell’allegro vociare dei bimbi, nel severo discutere dei grandi, nei panni stesi al sole… Da qui si vede la spiaggia, assolata e resa viva dai villeggianti, e poi il mare, il Tirreno, che s’infrange sullo scoglio bianco, che le storie di un tempo chiamarono “Plorau” o del pianto, dove all’orizzonte, le sette sorelle, le isole dell’arcipelago Eoliano, incantano chi si spinge a guardarle dai ”belvedere” del
Castello, da dove si domina, ad oriente Capo Calavà, ad occidente
Capo d’Orlando, ed in fondo, Milazzo e Cefalù, che nelle belle giornate, mostrano i loro profili.
L’attenzione di chi arriva al castello si posa sui merli ghibellini, che con il loro profilo a code di rondine coronano l’alto e maestoso torrione. E’ la torre conosciuta già come “Voab” nel 1094 ed ancor prima, “Marsa Daliah” cioè il “Porto della vite” dai geografi arabi che ne indicavano il “caricatoio” nelle loro mappe.
Basata su forte scarpa da due lati ed aperta ad un terrapieno dagli altri, la torre è affiancata, e caratterizzata, da un torrino scalare cilindrico che intersecandosi alle mura consente l’accesso alle varie elevazioni ed al terrazzo, punto di vedetta privilegiato per la difesa dalle incursioni “dei mori”. All’interno della torre una splendida sala di rappresentanza si chiude in un’ardita volta che ostenta lo stemma nobiliare dei Lancia di Brolo, venuti dal Piemonte in Sicilia ai tempi degli Svevi e discendenti da Galeotto e Cubitosa d’Aquino, nipote dell’imperatore Federico II e sorella del filosofo San Tommaso d’Aquino.
Con l’imperatore il legame dei Lancia si stringe col matrimonio di Bianca Lancia, prossima alla morte, dalla quale aveva avuto Manfredi divenuto poi “Re di Cicilia” come ama definirlo Guidotto da Bologna nel suo “Fior di Retorica”. In questo legame, sulla porta della cinta
muraria di Brolo, trova fondamento la scritta “Imperium Rexit Blanca Hoc e Stipite Manfredus Siculus Regia Sceptra Tulit”
Sulla seconda porta invece c’è, a ricordo di Corrado III che nel 1404 veniva dichiarato “Maior ac principalior de domo Lancea”, il marmoreo scudo bianco dove ancor oggi si legge “Principalior Omnium”.
Ai fasti della storia e della nobiltà guerriera dei Lancia si lega la leggenda che affiora ancora nella fantasia dei vecchi pescatori, che oralmente tramandano la storia di “Maria la Bella” che dalla finestra del Castello sospirava l’arrivo dello spasimante.
Questo, venuto dal mare in barca, scalava le rocce aggrappandosi alle bionde chiome di Maria.
Ma in una notte cupa, accecato dalla gelosia, il principe, fratello di Maria, lavò l’onore appostandosi sul bianco scoglio antistante, per questo detto “Plorau” o del pianto, uccidendo il pretendente e messolo in un sacco e legato ad un masso lo calò in mare.
Maria la bella, da quella notte attese invano morendo di crepacuore.
I fantasmi degli amanti appaiono ancora nelle rotte ai pescatori augurando “juta e vinuta, bona piscata”e se il tempo è inclemente : “Isati li riti! Viniti, turnati”.
Tra le mura del castello non c’è più la chiesetta di san Girolamo, ma nel parco fa mostra di sé l’elegante pozzo esagonale che la leggenda vuole collegato con alcune grotte sottostanti, per assicurare una sorta di via di fuga, anche se questa in effetti si trova tra le “timpe” della “porta fausa”.
I muri del castello risentono della trasformazione del tempo ed appaiono come una struttura feudale costruita nei primi del ‘400, probabilmente all’epoca di Pietro o Corrado Lancia, tipologie già attivate alla fine del ‘300, ma rimaneggiate nel ‘600 quando con l’uso delle armi da fuoco si ebbe la necessità di costruzioni anche della “scarpa fortificata”.
Anche se è inserita nel sistema delle torri costiere, la rocca di Brolo, sorge soprattutto a controllo e difesa di un sottostante porto-caricatoio, un nodo portuale dei traffici per l’entroterra o per le isole Eolie fino al XVII secolo, insabbiato dalle piene dei torrenti avvenute nel 1593 e nel 1682.
Il centro storico è tutto da scoprire, riesce a mantenere inalterata quella tipologia radiocentrica polifocale, il cui percorso irregolare è segnato da visibili stecche edilizie, decanta, nei tracciati a fuso, retaggi medievali.
L’ espansione di Brolo avviene gradualmente.
Nel XVII secolo nella breve pianura sottostante la rocca, si sviluppa il centro abitato con la “Chiesa Madre” fatta costruire nel 1764 da Ignazio Vincenzo Abate, marchese di Longarino e signore di Brolo.
L’ edificazione di alcuni piccoli palazzi ottocenteschi, lungo la strada principale, definiscono il profilo urbano del paese.
Si può dunque concludere dicendo che Brolo senza privarsi degli agi della modernità, mantiene memoria visiva del Medioevo, consentendo al visitatore, in un tutt’ uno, di assaporare la delizia dei luoghi, il gusto della leggenda, il sapore della storia, dei fasti nobiliari e della sapienza popolare.
Ricerca effettuata a cura di G. GULLOTTA
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